“Ci sono pezzi sbagliati e altri incompiuti di quella riforma. Ma se parliamo del contratto a tutele crescenti, introdotto da uno degli otto decreti legislativi del Jobs Act, e quindi dell’indennizzo che cresce al crescere dell’anzianità in caso di licenziamento illegittimo, già non esiste più. Cancellato dalle sentenze della Corte Costituzionale e anche dal decreto Dignità del Conte I che ha aumentato l’indennizzo massimo da 24 a 36 mesi”. A dirlo è Tommaso Nannicini, ex senatore Pd e co-autore del Jobs Act, intervistato da Repubblica sui referendum della Cgil contro la riforma renziana.
Secondo Nannicini la riforma “provava a dare una stretta al precariato: rider, in anticipo con i tempi, finte partite Iva, abolizione dei cocopro, il nuovo sussidio di disoccupazione Naspi più ampio su cui investivamo 2,5 miliardi, raggiungendo il 97% dei dipendenti. Poi però è stata anticipata dal decreto Poletti che liberalizzava i contratti a termine. E viene ricordata solo per quello e per l’articolo 18. L’errore politico del Pd e del suo leader di allora è stato parlare solo di licenziamenti, vendere una riforma complessa come un feticcio ideologico”. Motivo per cui, aggiunge, “Una riforma pensata per giovani e outsider è stata percepita come pro-imprese. Il simbolo si è vendicato”.
Il segretario del sindacato, Maurizio Landini, replica invece che l’attuazione di quel ddl “ha diviso le persone. I nuovi assunti e chi cambia lavoro dopo il 7 marzo 2015 non ha più la tutela della reintegra contro i licenziamenti illegittimi. Questo crea divisione nel mondo del lavoro, tra chi ha più tutele e diritti e chi meno. Di questo chiediamo l’abrogazione”. Nel giorno della commemorazione dell’assassinio di Massimo D’Antona, il giuslavorista ucciso dalle Nove Brigate Rosse 25 anni fa, Landini attacca: “Si è affermata una legislazione del lavoro che nulla ha a che fare con l’insegnamento di D’Antona. E un modello di impresa fondato sul basso costo del lavoro, sulla precarietà e sulla logica di subappalti, esternalizzazioni, gare al massimo ribasso, anziché su investimenti, sicurezza, qualità del lavoro e innovazione”.
Nannicini dal canto suo fa notare che “abolire il contratto a tutele crescenti che già non esiste più non significa ritornare all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Ma all’ultima modifica di quella norma fatta dalla riforma Monti-Fornero che aveva già ridotto l’articolo 18 all’ombra di se stesso. E che tra l’altro prevedeva pure meno mensilità di indennizzo: solo 24″. In effetti se passa il referendum si tornerà alla Fornero, legge 92 del 2012, che rende possibile la reintegra nel licenziamento disciplinare per “insussistenza del fatto contestato” o nel caso in cui questo rientri tra le condotte “punibili con una sanzione conservativa” stabilita dai contratti nazionali. Nel caso del licenziamento economico, invece, la reintegrazione avviene solo nell’ipotesi in cui il giudice “accerti la manifesta insussistenza del fatto”, altrimenti scatta il risarcimento da 12 a 24 mensilità. La Consulta ha abolito la norma che prevede che il giudice “possa” e non “debba” disporre la reintegrazione e la richiesta del carattere “manifesto” dell’insussistenza del fatto ai fini della reintegrazione, ritenendolo incostituzionale.
L’articolo Jobs Act, Nannicini: “Fu un errore politico di Renzi parlare solo di licenziamenti. Ma ora abolirlo non significa tornare all’articolo 18” proviene da Il Fatto Quotidiano.