Le notizie delle ultime ore sulle indagini che riguardano i rapporti tra alcune frange delle tifoserie di Inter e Milan e esponenti delle relative società ci confermano che in questo Paese la corruzione, la collusione, il malaffare sono talmente radicati nel contesto sociale che facciamo fatica – basti pensare agli scandali nella Chiesa cattolica – a trovare “settori o ambienti” socialmente responsabili. La definizione di “atteggiamento socialmente responsabile”, anche di un presidente di una squadra di calcio e dei suoi collaboratori, non deve quindi essere ridotta, come spesso succede in Italia, a concetti quali “buono” o “cattivo”, ma piuttosto a considerazioni sul dialogo sociale e sull’idea di comunità.
Non esiste dunque l’organizzazione “buona” o “cattiva”; può e deve esistere l’azienda “attenta” a regole che si traducano in una struttura di governo delle relazioni, in base alla quale la responsabilità degli amministratori non sia esclusivamente rivolta agli azionisti per la remunerazione del capitale investito, bensì necessariamente orientata, sempre per la inevitabile finalità di massimizzazione del profitto, verso tutti quei soggetti (dipendenti, fornitori, clienti) che, a vario titolo, abbiano un interesse diretto nei confronti dell’attività della società. Un’azienda che abbia quindi una responsabilità sociale. In questa prospettiva, anche il profitto non è qualcosa di negativo, non è mero egoismo, ma il risultato concreto di un lavoro fatto bene.
La responsabilità sociale di un imprenditore, in questo Paese, però, necessita di coraggio, di quell’audacia insita nel concetto di rischio imprenditoriale che non è mancanza di paura, bensì consapevolezza di poterla superare attraverso la profonda conoscenza dei nostri limiti. Anche nel mondo del calcio.
Le più evidenti degenerazioni dell’osmosi, nel business dello sport, tra la criminalità organizzata, la criminalità comune e le frange violente del tifo sono infatti, quelle del mondo del calcio, dove gli intrecci fra riciclaggio, corruzione e malavita sono stati oggetto di indagini giudiziarie in tutta Italia: partite truccate, gestione illecita delle scommesse, controllo delle scuole calcio e dei vivai, estorsioni mascherate da sponsorizzazioni e minacce a giocatori, allenatori e dirigenti, il rapporto tra gli ambienti malavitosi e i singoli calciatori per l’alterazione del risultato sportivo al fine di conseguire guadagni illeciti attraverso il sistema delle scommesse, utilizzo delle tifoserie per il controllo dei servizi e delle attività interne ed esterne agli stadi e gestione del bagarinaggio.
In considerazione di quanto detto, la gestione di Aurelio De Laurentiis a Napoli rappresenta un’eccezione illuminante. De Laurentiis opera da venti anni in città, e, seppur minacciato, non è mai stato coinvolto in alcuna inchiesta per affari con la camorra.
Il bagarinaggio, che storicamente a Napoli ha sempre spadroneggiato, non esiste più. Il controllo dei rapporti tra calciatori e società civile è serrato e non ammette deroghe. Calciatori, anche molto amati dai tifosi, che direttamente o inconsapevolmente sono stati accostati a figure e a storie losche della città (Lavezzi, Paolo Cannavaro, Reina), dopo poco tempo hanno fatto le valigie e hanno dovuto lasciare la maglia azzurra.
La società non è mai scesa a compromessi con le frange violente del tifo e ha sempre pubblicamente manifestato la sua indignazione per i comportamenti incivili, marginalizzando i gruppi ultrà. In certe dinamiche, il Napoli sembra un corpo estraneo a Napoli. Questa estraneità, in un territorio oggettivamente difficile, non viene mai evidenziata. Anzi, De Laurentiis è spesso accusato di voler tenere il Napoli lontano da Napoli, con la sede di fatto nei suoi uffici romani, e il centro di allenamento a Castel Volturno, lontano dal cuore di Partenope. Tuttavia, guidare il Napoli e tenerlo per due decenni lontano da ambienti inquinati è un risultato ottenuto anche grazie a questo distacco da certi circuiti di interessi.
Il Napoli non è mai stato così orgogliosamente libero da compromessi, in campo e fuori. Oggi al Maradona, in tutti i settori, si respira un’atmosfera di piacere, un vero e proprio teatro in cui la presenza di famiglie e bambini arricchisce di entusiasmo un ambiente comunque trainato dalla parte sana del tifo organizzato. Sicuramente un risultato più difficile di uno scudetto.
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